24/07/2017
Tutto ha avuto inizio nel 1998 quando, nel deposito di una parrocchia valtellinese, Francesca Bormetti ha rinvenuto una statua della Madonna ormai priva degli abiti e con felice intuizione ha cominciato a domandarsi se il culto delle statue vestite con abiti veri, diffuso soprattutto nel Meridione d’Italia, avesse per caso riguardato anche la provincia di Sondrio.
All’inizio la domanda sembrava peregrina, perché in Valtellina di statue vestite non s’era mai sentito parlare e le pochissime ancora in uso erano venerate e accudite con cura, ma con residuale consapevolezza del fenomeno e senza saper bene perché questo tipo di statue, snodate e vestite con abiti veri, sono tanto diverse da quelle tradizionali, in legno dipinto e dorato.
Ha perciò destato stupore scoprire una diffusione capillare e insospettata, bene illustrata dalla cartina dove i 40 pallini rossi indicano le statue ancora esistenti, i 50 pallini neri indicano le statue purtroppo andate perdute a causa delle direttive impartite tra Otto e Novecento dai vescovi, preoccupati che queste effigi risultassero indecorose e poco adatte a ispirare sentimenti di devozione.
I fedeli erano però molto affezionati a queste statue e non riuscivano a comprendere perché i vescovi le trovassero indecorose. Spesso in complicità con gli stessi parroci, furono perciò messe in atto diverse strategie per sottrarle alla distruzione, come nasconderle negli sgabuzzini o nei sottotetti, o trasferirle nelle chiese secondarie in alta quota, sperando che il vescovo non avesse voglia di camminare fin lassù. È quanto accaduto a Frontale, la cui statua è stata portata in Val di Rezzalo, nella chiesetta di San Bernardo.
La ricerca è durata anni ed è stata condotta da un affiatato gruppo di studiosi, perché il tema era talmente nuovo, curioso e denso di risvolti, da richiedere la competenza di storici dell’arte, storici del tessuto e della moda, storici della chiesa e della devozione, antropologi.
Il risultato di questo lavoro è illustrato nel volume “In confidenza col sacro- Statue vestite al centro delle Alpi”, edito nel 2011, catalogo della mostra allestita a cavallo del 2011 e 2012 a Sondrio, presso le sale del Museo Valtellinese di Storia e Arte e nella Galleria Credito Valtellinese.
La nota antropologa di Roma, Elisabetta Silvestrini, intenta a dialogare con la “madrina” della Madonna di Livigno, Amalia Bormolini. (foto F. Bormetti)
In genere le statue erano dotate di ricchi corredi e il cambio d’abito avveniva alla vigilia della festa o della processione, per mano femminile, nello spazio protetto di una sagrestia.
Il rito della vestizione era appannaggio di poche privilegiate, che spesso si tramandavano per via familiare questo ambito compito.
Tali riti si sono persi quasi ovunque, in provincia, con poche eccezioni fra cui Livigno, dove alcuni risvolti di interesse soprattutto antropologico si sono cristallizzati, a causa del lungo isolamento invernale patito dalla valle fin verso la metà del secolo scorso. Nell’ambito della ricerca, il caso della statua della Madonna di Livigno è stato indagato dunque con particolare attenzione sia nei saggi critici, sia nei due video che in mostra hanno riscosso tanto gradimento.
La statua vestita di Livigno risale alla metà del Settecento e ancora oggi trova posto sull’altare dell’oratorio posto accanto alla chiesa parrocchiale, un tempo appartenuto alla confraternita dei Disciplini. Il manichino sfoggia una lunga gonna composta da assi di legno, svasata per poter offrire sostegno all’abito. Oggi la statua possiede due abiti, quello della festa in seta bianca ricamata, e quello “di tutti i giorni”, in tessuto di seta variopinto e fiorato, ma in passato possedeva un corredo più ricco, composto da abiti, biancheria e corone per la Madonna e per il Bambino.